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Perchè la Grande Guerra ?

Chi si aspettava cosa dalla Grande Guerra?

 

La Germania – desiderava acquisire territori in Russia, temeva la superiorità navale britannica e, soprattutto, si sentiva minacciata di isolamento dai Paesi confinanti;

L’Austria-Ungheria – considerandosi un’alleato di minore importanza nei confronti della Germania, nonchè direttamente minacciato dal desiderio di indipendenza delle proprie, molteplici minoranze etniche e dei Paesi confinanti, l’impero guidato dal Kaiser Francesco Giuseppe cercava un rafforzamento economico e diplomatico in Europa.

La Gran Bretagna – in seguito all’apertura del Canale di Kiev, temeva una costante e inarrestabile crescita della Marina militare e commerciale tedesca; inoltre si sentiva seriamente minacciata da una possibile, prossima invasione teutonica;

La Francia – agognava riprendersi Alsazia e Lorena, perdute e concesse alla Germania nel 1870, e temeva una crescente egemonia europea tedesca;

L’Italia – La Triplice Alleanza, stipulata in precedenza con Austria e Germania, le andava stretta - mirava ad acquisire territori dall’Austria, in particolare in Dalmazia e nell’Adriatico.

La Serbia – cercava uno sbocco sul Mare Adriatico e avrebbe voluto condurre la rivolta delle popolazioni Slave nei Balcani ai danni dell’oppressione imperiale Austriaca;

La Russia – condivideva gli interessi della Serbia al fine di spezzare il giogo imperiale che gravava sulle popolazioni Slave e temeva le mire espansionistiche paneuropee tedesche;

Nel 1914 nulla poteva evitare un conflitto mondiale. Grazie ad un eccezionale sviluppo industriale quasi tutti i paesi europei possedevano ingenti quantità di armi e flotte militari in costante accrescimento. Francia e Inghilterra cercavano un modo per interrompere l’espansionismo tedesco e la sua inarrestabile egemonia industriale e scientifica. La Francia cercava la rivincita dopo la clamorosa sconfitta bellica del 1870 e voleva riprendersi l’Alsazia e la Lorena. L’Austria e la Russia credevano di poter risolvere le loro difficoltà attuando una politica estera fortemente aggressiva ed espansionistica.

La crisi del 1914 può definirsi la risultanza militare di una lunga tensione politica tra le grandi potenze europee che si trascinava da almeno un decennio: una prima crisi risale al 1905, in occasione delle iniziative tedesche per arginare l’espansione francese in Marocco; nel febbraio-marzo del 1909, poi, con l’annessione della Bosnia Erzegovina da parte austriaca, si riaccende la rivalità austro-russa nei Balcani; nell’agosto del 1911, una nuova crisi marocchina porta ad un nuovo confronto diplomatico tra Francia e Germania.

 

Nel 1912-13, infine, abbiamo le due guerre balcaniche, misero nuovamente in pericolo la pace tra Russia e Austria. Queste tensioni mantennero in costante stato di allerta le maggiori potenze europee e di conseguenza portato ad una inarrestabile corsa agli armamenti terrestri e navali. Contemporaneamente, il vento nazionalista aveva tenuto sotto pressione l’opinione pubblica alimentando un certo odio tra i popoli, sia in virtù del desiderio di potenza della propria nazione sia sotto forma di rivendicazioni etniche, come appunto il confronto tra Serbia e Austria.

La propaganda nazionalista, inoltre, aiutò molto i governi nel giustificare dinnanzi all’opinione pubblica le ingenti spese per il riarmo e per le spedizioni coloniali. Alla base delle tensioni internazionali vi erano comunque importanti interessi economici e territoriali per il controllo degli scambi internazionali, soprattutto alla luce delle ripetute crisi economiche avutosi tra il 1907 e il 1914. Da parecchi anni i vertici militari francesi e tedeschi si stavano preparando a una guerra che consideravano inevitabile. La Francia aveva irrobustito il confine con la Germania, quest’ultima invece aveva pronto il Piano Schlieffen per un attacco fulmineo che le permettesse di raggiungere Parigi in poco tempo, così come era successo nel 1870.

Appena dichiarata la guerra ed iniziata la mobilitazione il grosso delle truppe francesi venne ammassato lungo il confine tedesco. 

La mobilitazione delle forze russe si svolgeva, al contrario, molto lentamente per la scarsezza di mezzi di trasporto e l’insufficienza di vie di collegamento (strade e ferrovie). La Germania allora pensò di concentrare tutte le sue forze contro la Francia, di annichilirla rapidamente e poi rivolgersi contro l’impero russo sul fronte orientale. Per poter attuare questo piano di «blitzkrieg» la Germania doveva evitare ad ogni costo le possenti fortificazioni francesi costruite sul confine: perciò si decise di invadere il Belgio, rimasto neutrale, per prendere alle spalle le truppe francesi. I tedeschi, dopo un mese di durissimi scontri, si spinsero fino a quaranta chilometri da Parigi, ma sul fiume Marna vennero fermati e respinti al termine di una battaglia di inaudita violenza. Dopo l’episodio della Marna le truppe tedesche e franco-britanniche si dovettero fronteggiare lungo una linea che andava dal canale della Manica fino alla Svizzera. La guerra di movimento si trasformò dunque in guerra di posizione. I soldati furono costretti a vivere dentro chilometri e chilometri di anguste trincee, nella sporcizia e sotto le intemperie, su un fronte praticamente immobile.

 

A questo punto la non prevista guerra di posizione fece svanire l’illusione della guerra lampo. Questo accadde perché rintanandosi nelle trincee e attendendo l’assalto del nemico il difensore si ritrovò quasi sempre avvantaggiato sull’attaccante. Gli assalti, infatti, venivano impostati e concretizzati dai soli fanti armati di fucile e baionetta, che si scagliavano contro postazione avversarie ben guarnite, defilate, protette e quasi sempre dotate di letali mitragliatrici.

Gli stati europei si buttarono nell’avventura bellica sottovalutandone tragicamente i costi economici ed umani. Affrontarono con estrema leggerezza un conflitto di tali proporzioni poiché erano certi di una guerra breve, analoga a quelle dell’800. Anzi, erano fermamente convinti che la potenza delle nuove armi a loro disposizione avrebbe ulteriormente accelerato l’esito del conflitto. Altro errore di prospettiva fu quello di credere che la supremazia in Europa avrebbe offerto anche il dominio sul mondo intero, ma questo calcolo non tenne mai in considerazione la nascita di due nuove superpotenze: gli USA e il Giappone, che uscirono fortemente rafforzate dalla Prima Guerra Mondiale, mentre l’Europa ne risultò gravemente indebolita, sia per le perdite umane che per i costi economici.

La strategia italiana

 

Le quattro principali cause dell’azzardata entrata in guerra del nostro Paese, al fianco delle forze dell’Intesa, possono essere identificate in:

a) bisogno di grandezza,

b) rischio di una crisi politica,

c) errate valutazioni sull’importanza dell’impegno bellico,

d) avidità di «facile espansione territoriale». 

Luigi Cadorna, capo del nostro tremebondo ed antiquato esercito, riteneva le armi a sua disposizione sufficienti a capovolgere il rapporto di forza tra le parti belligeranti – nel dicembre 1914 egli osservava che: «La bilancia è oggi oscillante e piuttosto a sfavore degli Imperi centrali. Se un altro esercito viene gettato sul piatto avverso, dovrebbe traboccare». Infine, anche dall’estero non mancavano pressioni e il comportamento italiano non brillò certamente nell’ambito delle stesse rivendicazioni territoriali, avanzate prima con Austria e Germania, promettendo in cambio un rientro nella Triplice Alleanza, poi nei confronti dell’Intesa, quando il nostro governo non riuscì ad accontentarsi delle terre e addirittura delle ricompense economiche promesse dall’Austria stessa, in cambio della nostra neutralità! Dopo un lungo e tortuoso mercanteggiare, a Londra, nell’aprile del 1915, il governo italiano firmò un patto segreto con cui si impegnava a schierarsi in guerra al fianco di Francia e Inghilterra. Anche se il re si dichiarava a favore della guerra, il Parlamento, ancora contrario, fu in pratica costretto ad approvare il suddetto patto. Il 24 maggio 1915 anche l’Italia entrò in guerra a fianco dell’Intesa. Degno di particolare menzione è il fatto che, al contrario di quanto recita il più famoso inno patriottico di quei tempi (peraltro scritto sul finire della guerra)  «La Canzone del Piave», nel maggio 1915 l’Italia non subì alcuna invasione da parte degli Austro-Ungarici, ma di contro cercò fin dall’inizio delle ostilità di varcare i suoi confini, nella spasmodica corsa verso Trento e Trieste.

Copyright Alessandro Gualtieri 2010

 

Per ulteriori approfondimenti: www.lagrandeguerra.net

Il nostro Paese infatti, non voleva entrare in guerra a fianco degli Austriaci che occupavano ancora i territori di Trento e Trieste. In Italia predominava il partito dei neutralisti, ma la minoranza interventista era assolutamente dell’avviso di cambiare alleanza e di schierarsi contro l’Austria. La stampa interventista, dal «Corriere della sera» all’«Idea nazionale», si adoperava senza tregua per convincere tutti che, restando neutrale, il nostro Paese non sarebbe mai diventato una “grande potenza”. L’interventismo proponeva l’annessione delle terre cosiddette «irredente», considerate italiane, ancora in mano straniera, quali il Trentino, la Venezia Tridentina, la Venezia Giulia, Istria, Fiume, Dalmazia, Nizza, Canton Ticino, Corsica e Malta. I territori considerati irredenti erano definiti tali in modo arbitrario: a volte si considerava il criterio etnico, ossia la presenza di italofoni, altre volte quello geografico, appartenenza ai confini naturali, altre ancora a quello storico, appartenenza del territorio, in passato, ad uno degli antichi stati italiani. I cattolici e buona parte dei socialisti si professavano dichiaratamente pacifisti e neutralisti. Giolitti, che da poco aveva lasciato la presidenza del consiglio, si era impegnato ufficialmente per cercare di garantire la neutralità italiana. Il famoso statista era convinto che gran parte del territorio italiano ancora occupato dall’Austria («parecchio», come lui stesso lo definì) potesse essere ottenuto con la diplomazia e non con la violenza. Di contro, il ministro degli Esteri Sidney Sonnino e altri con lui, intendevano approfittare della guerra proprio per «spazzare via il parlamentarismo giolittiano». Quest’ultimo era considerato una pratica di governo troppo trasformista, dedita a frequenti compromessi con il partito socialista dell’epoca e a una diretta manipolazione elettorale, che affidava i risultati delle urne alle intimidazioni dei prefetti e dei potentati locali. Una specie di prova generale di dittatura segreta. Giolitti, da parte sua, avrebbe di certo voluto sbarazzarsi dei membri di quel Governo interventista a lui tanto indigesto. Se, con i deputati a lui fedeli, Giolitti avesse continuato a opporsi all’intervento, l’Italia sarebbe andata incontro a una crisi istituzionale di proporzioni enormi e lui stesso ne sarebbe stato travolto. Appiattendosi sulle posizioni dei socialisti neutralisti e del Vaticano non avrebbe più avuto davanti a sé una qualsiasi prospettiva di rinnovamento costituzionale e liberale.

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